venerdì 13 giugno 2008

Brandon Herman - Interview


Le fotografie di Brandon Herman mi fanno desiderare ciò che c’è in esse e mi fanno venir voglia di essere anch’io lì. Il suo lavoro è gentile, sottile e sexy. Brandon spesso cattura momenti indifesi di chi sta fotografando rendendoci parte di un immaginario privato a cui, attraverso il suo occhio d’artista californiano venticinquenne, c’è concesso entrarci ed a volte anche di perderci.

Che cosa ti ha spinto ad iniziare a fare fotografie?
Fondamentalmente ho iniziato a fare foto perchè ero terribile nel disegno e nella pittura. Ho capito che i soggetti che m’interessavano e che volevo mostrare nei miei lavori, sarebbero stati migliori se li avessi serviti su un piano più realistico, che non sarei mai stato in grado di raggiungere con qualsiasi altro mezzo, così la fotografia era la mia unica opzione.

Ciò che mi attira nelle tue fotografie e che le differenzia da alcune che si vedono in giro negli ultimi anni è che si percepisce la connessione tra te e chi stai fotografando piuttosto che guardarli in modo cinico. Nelle tue fotografie la vita sembra sempre che valga essere vissuta e sia divertente sei d’accordo?
Non sono mai d’accordo o in disaccordo con ciò che le persone percepiscono dai miei lavori. Molta della mia energia è direzionata nel creare un immaginario che è specifico abbastanza da guidare chi osserva i miei lavori, ma che è anche abbastanza ambiguo da permettere che l’immaginazione di chi sta guardando è libera di andare liberamente e finire in uno spazio psicologico che non avrei mai previsto e che nelle mie fotografie la vita sembra sempre che valga essere vissuta e sia divertente è definitivamente parte del mio immaginario. Mi piace vedere la vita come un gioco ed ogni giorno mi sveglio e cerco ad un nuovo modo per rendere questo gioco interessante; nuove regole, nuove complicazioni. Uso i miei progetti come scusa per fare cose divertenti, e quando non lo sono più inizio un nuovo progetto. Credo che anche se il mio lavoro si rivolge a chi lo osserva sia anche molto egoistico, è una costante contraddizione, vedi è questo che m’interessa.

Osservando le tue fotografie, parti con una sensazione di quanto sono fragili le persone che fotografi e poi gradualmente percepisci un sentimento di una dignità profonda che possiedono questi ragazzi è come un viaggio psicologico...
Credo che ciò che tu colga come livello d’intimità sia quel qualcosa che ho usato per tenermi interessato e per continuare ad evolvere il mio lavoro. In superficie le persone sono quasi tutte uguali, ma quanto abbatti le loro inibizioni e ti avvicini di più alla loro essenza, quando sono arrabbiati o spaventati o troppo esausti perchè mantengano una facciata, i loro tratti animali iniziano a rivelarsi e le cose diventano dark ed inaspettate. Queste diventano le variabili che rendono diversa e nuova l’esperienza. Quando faccio un progetto con qualcuno, cerco sempre di farlo in viaggio, perchè quando tu viaggi con qualcuno puoi amarli o odiarli fino in fondo in un giorno solo e le cose diventano intense. A volte quando fotografo qualcuno cerco di proposito di farli arrabbiare più che possono, e poi spendere il resto della giornata ad attrarli di nuovo verso di me cercando di farli innamorare di me, mantenendo l’energia e la tensione alta, e le foto documentano questa esperienza.

É per questo che riesci a mantenere le tue foto spontanee?
A tratti è spontaneo e a tratti è costruito in maniera elaborata. Molti dei miei progetti iniziano mesi prima ricercando un tema che m’interessa. Raccolgo articoli di quotidiani, fotografie che m’ispirano, qualsiasi tipo di materiale che abbia un significato per me (artwork, still di film, foto scaricate da internet, locations, articoli di moda), poi inizia a formarsi un immaginario che in un certo modo ha a che fare con la mia ricerca e che raccolgo in un libro. Poi cerco di capire in che modo il mio immaginario possa essere ricreato in una situazione di vita reale e poi cerco persone che di solito sono miei amici che recitino per me. Ma poiché cerco sempre di spingerli psicologicamente durante il making del lavoro, c’è sempre un della spontaneità o imprevedibilità nelle loro reazioni. Le mie foto quindi sono un il risultato di uno strano psicologico evento sportivo che ho creato per me ed i miei amici.

Una delle cose che mi diverte di più nelle tue fotografie, è la costante sensazione di sessualità e d’intima gioia con essa che rivelano, le persone che fotografi sembrano essere nel loro mondo privato dove tu vi entri...
I momenti privati sono molto eccitanti per me, perchè sono quelli che non ti sono permessi vedere. Sono molto guidato dalla mia curiosità. A volte vedo qualcuno al supermercato o per strada, vorrei poterlo seguire a casa, vedere com’è la sua camera, osservarlo mentre si fa la doccia, ma non posso ed è questo ciò che m’intriga.

Mi racconti la storia dietro la tua ultima personale “My Vacation With A Kidnapper”? Hai mai avuto paura di essere rapito?
Fondamentalmente da piccolo la cosa che mi faceva più paura di ogni altra cosa era l’idea che qualcuno entrasse dalla finestra della mia camera da letto e mi rapisse. Quando avevo circa otto anni, una bambina di nome Polly Klaas è stata sequestrata in una città poco distante dalla mia. Ero terrorizzato da quella esperienza ma allo stesso ne sono rimasto ossessionato. Guardando in dietro capisco che anche se quella è stata una terribile tragedia e quelle energie nervose che provavo e che mi tenevano sveglio la notte, erano anche piacevoli. È una parte della psiche umana strana e complessa, ma credo che la paura possa essere anche euforica e così l’idea della mostra era esplorare la possibilità che qualcosa potesse essere simultaneamente una paura ed una fantasia.

Ti fa saltare i nervi scegliere la foto migliore? Combatti su quale scegliere o ti viene naturale?
Non mi fa saltare i nervi, ma scattando tanto, a volte l’editing può diventare lungo e tedioso. Ogni immagine che ho esposto alla mostra rappresenta una variante tra le 80 e le 300 immagini della stessa situazione, e poi altre 2000 che erano idee diverse che alla fine non sono state inserite. Ho scattato circa 7000 foto per la mostra Kidnapper, ma solo 12 alla fine ne ho scelte.

Se dovessi scegliere la musica perfetta per le tue fotografie cosa sceglieresti?
Amo i Nine Inch Nails. Li ho ascoltati un sacco mente stavo preparando la mia ultima mostra, eccoci a parlare di nuovo di contraddizione, Trent Reznor si è formato come pianista classico, ed alcune canzoni sono così belle e tranquille che puoi sentire quelle radici, ma poi alcune sono così aggressive che e dure che puoi sentirlo mentre le distrugge diventando una versione alternativa di se stesso.

Cos’è che trovi eccitante di Los Angeles?
Non lo so. E se lo sapessi probabilmente mi sarei già stufato e trasferito altrove. C’è qualcosa qui che mi rende curioso, eccitato e che mi fa impazzire. Adoro i tramonti inquinati, il traffico, gli attori e tutto il resto, trovo il tutto molto bello, triste ed affascinate, ma non so perchè. Per me le cose sono solo interessanti quando sono confuse, una volta capite, è il momento di muoversi. E se hai capito tutto, per me è meglio morire.

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